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Articoli Lenti colpi di tamburo
Proporzioni: la Causa, la vita, la morte e il limite umano.




Lenti colpi di tamburo

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 Lenti colpi di tamburo

La strada, gli alberi e una vecchia fotografia in bianco e nero. Questo era ciò che attraverso le braccia si profilava allo sguardo. Sul tavolo della cucina la fioca luce della lampadina da 40W proiettava ombre taglienti che assieme alle venature del legno, sembravano descrivere l'inquietudine di Andrea.

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Aveva i capelli brizzolati e usava portare i suoi quaranta lunghi anni nascosti dietro ad un paio di baffi scuri, simbolo sbiadito di un'epoca passata. Era Lunedì. I suoi occhi grigio ghiaccio riflettevano i tizzoni del fuoco nella stufa.

Erano le 17.34 e le mani iniziarono di moto personale a vibrare. Umide e tremolanti poggiavano sulla pipa di granoturco, troppo annerita dal fumo del tempo per apparire nella sua colorazione originale. Stava tra le sue mani e ogni tanto si sollevava verso la bocca. Era spenta ma in quel momento non aveva alcuna importanza. C'era poco ossigeno e molta tensione nell'aria.

La foto portava impressi i volti di Carlo e Agata, i genitori del custode dell'edificio, scomparso prematuramente il giorno prima. Domenica.

La foga con cui entrò Paolo in quella stanzetta fece fuggire rapidamente il silenzio: fu così che Andrea parlò, il cervello impose alle sue corde vocali di vibrare, fuoriuscirono parole articolate e coerenti alla situazione ma non fu possibile interpretarne il significato. Paolo non era in grado di elaborarle.

Biondo di capelli sudati, indossava un passamontagna porpora, solo la sua bocca poteva mostrarsi in tutta la sua bellezza. Vedere la pipa di granoturco ancora sorretta dalla presenza di un braccio vitale lo rilassò. Il piano poteva procedere. In quel momento del whiskey cadde dalle sue labbra fino a scivolare sul collo e a bagnare la camicia firmata.

Andrea fissava senza dimostrare interesse le macchie rosso sangue sulle maniche del ragazzo; quando Paolo se ne accorse tra i due tuonò uno sguardo carico di elettricità. Passò un breve ed interminabile secondo. Fu in quell'istante che Andrea ripensò a quel quadro troppo figurativo che aveva dipinto pochi mesi prima.

Le ombre dei due, complice il tratto del fuoco, si fecero più minacciose: "Che hai fatto? Che hai fatto per la miseria?" - Disse Andrea costringendo al muro lo studente. - "Niente! Non ho fatto niente! Ma cosa ti passa per la testa? Mi stai facendo male!" - Calmando prima la mente e poi il corpo: "Scusami ma ho visto il sangue e... Niente... Siamo tutti un po' tesi, tutto qui, fatti coraggio... La Causa... Accidenti mi devo essere toccato con la cenere della pipa, vado a sciacquarmi."

Il bagno era stretto e, nel lavandino, una saponetta rosa otturava lo scarico già provato dal calcare del tempo. Quando si è nervosi si cerca di risolvere piccoli problemi con tenacia inusitata, anche Andrea diede il suo contributo a questa tesi e cercò di rimuoverla con dell'acqua. Quando questa schizzò via si chinò per raccoglierla e vide gli occhi di un pazzo riflessi in un frammento dello specchio, specchio rotto poche ore prima. Erano i suoi occhi. Si agitava come una foglia al vento, afferrò il lavandino per smettere ma invano.

La saponetta si era nascosta e lui voleva a tutti i costi ritrovarla, come se da quella dipendesse tutta la sua vita. Allungò il braccio nell'angusto spazio tra il gabinetto e la doccia: inutile. C'era un odore acre di muffa, era troppo tardi, quel pezzo di sapone aveva già condizionato tutto quanto.

Ormai disteso a terra, l'uomo appoggiò la testa al pavimento bagnato, sporco, appiccicoso. La vide da una prospettiva diversa e capì, capì tutto quanto ma la linea di non ritorno era già stata superata. Su un fianco cercò quindi di rialzarsi ma in quel momento, con un sordo rumore metallico, cadde da sotto la sua giacca un pericoloso oggetto di metallo. Una pistola, precipitata su cocci di vetro. Non era assicurata al fodero e cadde, semplicemente. Non aveva la sicura. Tutti la sentirono anche se non aprì il fuoco.

Dalla stanza attigua Filippo reagì immediatamente, spalancò gli occhi, aggrottò le sopracciglia, voltò il capo come un lampo e si lanciò verso la fonte della sonorità percepita: "Prof! Cosa succede? Ha bisogno d'aiuto?" - Ricomponendo la voce - "No Filippo. Va tutto bene, continua con il tuo lavoro e non pensare a me." - "Ma..." - "Ho detto che non c'è alcun problema, su che ce la caveremo! Fatti forza!" - La porta era chiusa a chiave e Filippo aveva abbandonato la sua postazione radio. Un errore, un errore grave.

Anche Paolo si era messo nel frattempo dietro la porta, attirato a sua volta dal tonfo. Appoggiato allo stipite era colto dalla spossatezza tipica dell'alchool. Non capiva più della metà di ciò che sentiva. Dal bagno la voce continuava: "Torna alla radio Filippo, è importante che tu stia lì. Vedrai che ce la faremo!" - "V-va bene, lo crede davvero?" - "Certo. Ah ascolta tu non sai che cosa ha fatto Paolo giù di sotto? L'ho visto un po'..." - "Prof è qui di fianco a me... Io... Per la Causa dobbiamo rimanere uniti e... Io, io devo tornare alla radio, è il mio turno."

Passò del tempo.

La cucina era vuota, l'unico intruso che vi sostava abusivamente era il revolver d'acciaio nel quale la scritta Fitness dei cereali si rifletteva deformata. Da lì si potevano sentire decisi passi calpestare la scala antincendio. Riecheggiavano nel cortile con un eco metallico.

La pistola, prima appoggiata al cuore di Andrea, era fredda, sola sul tavolo. Quello era il settimo scalino e Andrea pensava alla saponetta, quello era il decimo scalino e Andrea pensava al quadro. Era il tredicesimo scalino e Andrea, non pensava più. Un proiettile aveva trapassato il suo cranio attraverso la fronte. Aveva donato la vita e i suoi lunghi anni alla Causa.

In cucina era intanto tornato Paolo. A viso scoperto, si stava toccando il naso adunco come con l'intenzione di metterlo a posto. Aveva 18 anni e i giudizi degli altri sul suo aspetto e sulla sua esile corporatura lo facevano adirare a tal punto da fargli gonfiare una vena in fronte. Aveva anche le mani sporche di sangue, il sangue di Giada. Il pavimento in controluce attirò la sua attenzione: le piastrelle erano decorate con una trama che ricordava vagamente un'impronta digitale. Pensò a tutto quello che sarebbe accaduto se non fosse fuggito istantaneamente. Ieri l'abbracciava come un'amica e oggi si è scoperto suo carnefice.

L'aria era sempre più angosciosa e il sole aveva già ceduto il testimone alla notte. Ognuno rimaneva immobile nella sua postazione. Vivi e morti.

Qualche ora dopo i capelli rossi di Edoardo correvano folti per il corridoio dell'istituto e giunti di fronte alla porta della cucina permisero, placandosi, alla bocca di parlare: "Paolo che fai? Non trovo più il prof!" - Con sguardo alienato: "Io non l'ho visto...!" - "Ma... e la pistola? Filippo dice che l'avrei trovata qui..." - "A cosa ti serve?" - "Sta succedendo... Ci sono le teste di cuoio! Paolo alzati! Perchè sei sporco di sangue? Tu..." - Due sguardi si intrecciavano, ancora una volta.

Andrea Asnaghi, professore di filosofia, giaceva dove il giorno prima era uscito a fumare la sua pipa di granoturco. La sua guancia poggiava sulla cenere dei giorni andati. Il sogno era perso. Ciò che seguì fu una serie di sovrapposizioni violente: sulla cenere cadde sangue, sul sangue urla di dolore, sulle urla la suola nera di scarponcini militari.

Un'ora dopo, quando tutto si calmò la TV trasmise notizie agghiaccianti sulla strage. Non dissero nè perchè, nè come. Quando Giacomo accorse sul luogo capì che nessuno di loro era sopravvissuto: Giada, Maria, Elisa, Andrea, Filippo, Edoardo e Paolo. Tutto cominciava a quadrare, la libertà, la bomba inesplosa. Nessuno l'aveva ancora vista.

Eventuali riferimenti a fatti o persone sono puramente casuali. Tratto da:
"La Causa di Andrea Asnaghi"

 

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