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KIERKEGAARD, PRECURSORE DELL’ESISTENZIALISMO | ||
L'esistenzialismo si ricollega alla fondamentale questione ontologica, ovvero sia "che cos'è l'essere?". Fulcro vivo della filosofia kierkegaardiana è appunto l'esistenza; egli elabora il suo pensiero esaminando tre diversi stadi dell'esistenza umana vale a dire: estetico, etico e religioso. Tra questi tre diversi stadi evolutivi non esiste possibilità di compromesso, seguono la logica dell' "aut-aut", non quella hegeliana dell'et-et. Le teorie hegeliane si sviluppano seguendo un procedimento dialettico strutturato da tre fondamentali momenti: tesi, antitesi e sintesi; e in quest'ultima vengono sommati i valori delle due tappe precedenti. Attraverso questo interessante metodo si sforzò di risolvere numerose questioni, riguardanti problemi: sociali ed esistenziali (ricordiamo per esempio la triade famiglia-società civile- stato e quella essere-nulla-divenire) e riuscì anche a conseguire buoni risultati, anche se a volte questo suo ridurre il tutto a una triade dialettica evolutiva pareva un po'forzato, in quanto anche intuitivamente viene difficile riuscire sempre a trovare una sintesi che concili tra di loro due teorie opposte, e che a sua volta comprenda contemporaneamente al suo interno i valori della tesi e della antitesi. Invece secondo il filosofo danese ogni soggetto può avere solo una qualità alla volta, l'una esclude l'altra e il passaggio da uno stato all'altro avviene soltanto per mutamento radicale. Dunque, per Kierkegaard, non esistono "sfumature" e posizioni intermedie tra una condizione e l'altra. È di conseguenza fondamentale il valore della scelta e la responsabilità che ne deriva. Come avevamo brevemente delineato nelle righe precedenti, il precursore dell'esistenzialismo si sofferma ad analizzare tre stili di vita, i quali ora andremo a vedere nel dettaglio partendo dalla vita estetica per arrivare a quella religiosa. Lo stadio estetico trova il suo simbolo più significativo nel Don Giovanni di Mozart. L'esteta impegna la sua vita rincorrendo l'attimo fuggente della propria realizzazione, all'insegna della novità e dell'avventura, cerca di rendere unico e irripetibile ogni attimo della sua vita, vive solo il presente e insegue il piacere immediato. Tuttavia, al di là di questa condizione apparentemente gioiosa, che sembra richiamare da vicino il motto oraziano del "carpe diem", la vita estetica sprofonda in una situazione di noia e l'individuo finisce per rinunciare a una propria identità e per avvertire il vuoto della propria esistenza. Infatti il seduttore kierkegaardiano (contrapposto all'immagine del marito, modello preso a immagine per lo stadio etico) sceglie di non scegliere vivendo attimo per attimo e evitando il peso delle scelte impegnative. Egli non vuole sacrificare niente e non vuole tener chiusa nessuna porta, o meglio non vuole mai definitivamente imboccare una strada del suo tortuoso labirinto, ma ci si accorge presto che sia impossibile portare a termine ogni strada e quindi si finisce per rimanere lì sulla soglia avendo assaporato un po'di tutto, ma senza essersi gustato niente in maniera definitiva. Diverso è lo stadio etico (accostato per contrasto a quello estetico, nell'opera "Aut-Aut"), nel quale l'individuo compie attivamente una scelta, assumendosi in pieno la responsabilità della sua libertà, impegnandosi in un compito, al quale rimane fedele. L'uomo etico sceglie ciò che vuole essere e si impone una disciplina necessaria alla realizzazione del suo progetto. Infatti, la vita etica si fonda sulla continuità; l'individuo si sottopone a un modello universale, che sostituisce al desiderio dell'eccezionalità dell'esteta la scelta della normalità. Pur collocandosi su un piano più alto della vita estetica, la vita etica è destinata anch'essa al fallimento. Se la noia dell'uomo estetico può farlo convertire a una vita etica, anche questa eccessiva disciplina e rigidezza può portare a una vita fredda e asettica. Si è già visto come per Kierkegaard l'esistenza sia vincolata alla libertà assoluta: il destino dell'uomo è incerto proprio perché aperto a qualsiasi possibilità. La possibilità è la categoria fondamentale dell'esistenza e l'angoscia è la vertigine che scaturisce dalla possibilità della libertà. L'uomo sa di poter scegliere, di aver di fronte a sé la possibilità assoluta, ma è proprio questa indeterminatezza che lo angoscia. L'angoscia è la possibilità di agire in un mondo in cui nessuno sa cosa accadrà. Strettamente connessa alla categoria della possibilità è anche quella della disperazione, la malattia mortale dell'uomo, trattata dal filosofo nell'omonimo libro. A differenza dell'angoscia, che è incentrata sul rapporto tra l'io e il mondo, la disperazione riguarda piuttosto quel rapporto del singolo con sé stesso. L'angoscia è determinata dalla coscienza che tutto è possibile e quindi dall'ignoranza di ciò che accadrà; invece la disperazione è motivata dalla constatazione che la possibilità dell'io si traduca necessariamente in una impossibilità. L'io infatti è posto di fronte a un'alternativa: volere o non volere sé stesso. Se l'io sceglie di volere se stesso, e quindi di realizzarsi fino in fondo, viene necessariamente messo a confronto con la propria limitatezza e con l'impossibilità di compiere il proprio volere; se al contrario sceglie di non volere sé stesso e cerca di essere altro da sé si imbatte in un'impossibilità ancora maggiore. Nell'uno come nell'altro caso è destinato al fallimento è condannato a una malattia mortale che è appunto quella di vivere la morte di sé stesso. Tanto l'angoscia, quanto la disperazione si risolvono nella fede. Sia l'esperienza della possibilità del nulla, propria dell'angoscia, sia quella della malattia mortale che rivela l'impossibilità dell'io, si risolvono soltanto quando l'uomo compie un salto qualitativo, aggrappandosi all'unica possibilità infinitamente positiva, che è Dio. Nella vita religiosa non vi è più dunque il sentimento dell'angoscia del possibile, perché il credente sa che il possibile è nelle mani di Dio; nè il suo io si perde nella disperazione dell'impossibilità poiché sa di dipendere da Dio e di trovare in Lui un sicuro ancoraggio. Il passaggio dalla vita etica alla vita religiosa è un salto che avviene senza mediazioni. La fede è piuttosto un atto esistenziale che va al di là di ogni tentativo di comprensione razionale, accettando anche ciò che al vaglio della ragione appare assurdo (vedi episodio d Abramo in "Timore e Tremore"). L'essenza intima della fede non è una verità oggettiva, al contrario essa è puramente soggettiva, nel senso che è fondata sul rapporto del soggetto con la rivelazione divina. Nella fede ogni uomo è solo con Dio. Con la nozione di momento, Kierkegaard indica proprio l'irrompere dell'eternità nel tempo con cui Dio si rivela all'uomo. Nel momento, l'infinito si manifesta al finito; cosicché nella verità che ciascun credente porta soggettivamente nel suo cuore è contenuta la stessa verità divina. Il Cristianesimo è quindi l'unica vera religione, poiché esso soltanto riesce ad esprimere questa verità per mezzo della dottrina dell'incarnazione di Dio. Pertanto l'uscita dal labirinto, Kierkegaard la individua nella fede religiosa, come un'unica ancora di salvezza, anche se questa non è assolutamente ancorata alla ragione poiché questa ha dei limiti e non è ben salda; quindi non avremo mai ben chiara una mappatura del labirinto, ma dovremo fare affidamento a colui che conosce tutti i vari percorsi del labirinto. |
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