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In poche parole, il disco che nessuno si sarebbe mai aspettato. Un po'
per la notevole diversità rispetto ai precedenti dischi di Burzum, un
po' per la sua bassa qualità.
Il disco, realizzato completamente in prigione, forse denota un calo
della creatività di Varg, cosa che però verrà smentita con Hlidskjalf.
Difficile collocare "Daudi Baldrs" in un genere: "ambient" è una
definizione troppo generica e forse lontana. D'altronde le
caratteristiche di questo disco sono più simili a un gruppo di tracce
midi adatte per un videogioco di parecchi anni fa. Proprio questo fa
abbassare la qualità di "Daudi Baldrs", le composizioni sono
caratterizzate dalla stessa ipnotica ripetività dei brani di Burzum, in
questo caso esageratamente prolissa e noiosa. La qualità del suono è
bassa, caratteristica ad ogni modo tipica degli album di Vikernes,
peccato però che in questo caso la pochezza del suono sia lontana dalla
tipica atmosfera e più simile in realtà a una registrazione di midi.
A motivare questa bassa resa, la possibilità del solo uso del
sintetizzatore, e il fatto che il disco fosse stato pensato
diversamente. La musica avrebbe dovuto fare da sottofondo a una voce
narrante il mito nordico della morte del dio Baldr ("Daudi Baldrs",
appunto). Tuttavia, le autorità norvegesi hanno impedito a Varg di usare
un microfono, pertanto il disco è solo strumentale.
Un'analisi di ogni pezzo è superflua, visto che le lunghissime "Daudi
Baldrs", "Balferd Baldrs" e "Illa Tithandi" sono oltremodo prolisse e
monotone, e le due "I Heimr Heljar" e "Hermodr A Helferd", nonostante la
loro breve durata, appaiono all'ascoltatore ben più lunghe di quel che
sono. L'unico brano che salva un po' il disco è la comunque lunga "Moti
Ragnarokum", che chiude l'album e mantiene, seppur debolmente, quell'atmosfera
che da sempre ha contraddistinto le creazioni di Varg Vikernes: a una
intro di solo pianoforte si aggiungono presto archi e timpani che
rendono la composizione varia e altisonante, creando una musica ricca di
pathos.
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