- Il suicidio nel pensiero di Seneca - |
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Seneca e il suicidio come simbolo di libertà | ||
Lucio Anneo Seneca nacque a Cordoba, presumibilmente nel 4 a.C., da una ricca famiglia di ceto equestre. Fu presto condotto a Roma, dove ottenne un'istruzione retorica e filosofica: seguì le lezioni dello stoico Attalo e del neopitagorico Sozione, da cui apprese i costumi sobri ed austeri. E proprio da tale istruzione svilupperà i temi in seguito esposti nelle sue opere. È possibile quindi trovare il tema del suicidio, e in generale della morte, in diversi suoi scritti. Nella Consolatio ad Marciam, facente parte dei Dialogi, un gruppo di dieci opere per un totale di dodici libri di argomento filosofico, Seneca si propone di consolare una donna dell'alta società romana a cui da poco tempo è morto il figlio Metilio. Esemplifica quindi esempi illustri di lutto del passato e, soprattutto, s'impegna nel dimostrare che la morte non è un male, svolgendo sia la tesi della morte come fine di tutto, e di conseguenza anche di ogni dolore, sia quella della morte come passaggio ad una vita migliore. Nelle Epistulae ad Lucilium, oltre al
tema dell'esortazione all'otium e a quello del tempo, Seneca compie
delle riflessioni sul suicidio: avvicinatosi alla fine della vita, il
filosofo deve preparasi a morire. Egli, avendo raggiunto la virtù e la
totale libertà da ogni condizionamento esteriore (autárkeia), deve
sconfiggere la paura della morte ed esser pronto a lasciare questa vita
in qualsiasi momento, senza timori né rimpianti ("Itaque sapiens vivet
quantum debet, non quantum potest" [3]). Per il saggio la morte non è né
un bene né un male, ma è strettamente legata alla possibilità di
raggiungere la felicità. Attraverso la meditatio mortis, la
contemplazione della morte per quello che veramente è, l'ineluttabile
punto d'arrivo di ogni vita, e non come una pena, è possibile guardare
al gesto suicida con occhi diversi: nella morte possiamo trovare la
nostra libertà, libertà spirituale e materiale, liberazione dai travagli
della vita e dalla schiavitù dei beni materiali. Tuttavia Seneca non si
sbilancia a dare una regola generale, essendo convinto che le condizioni
influiscano sempre sull'atto ("Non possis itaque de re in universum
pronuntiare, cum morte vis externa denuntiat, occupanda sit an
expectanda; multa enim sunt quae in utramque partem trahere possunt"
[4]). Egli si limita a ribadire a Lucilio, e a tutti noi, il diritto di
ogni essere umano alla morte, sentito come il garante della nostra
felicità, il riscatto dalle nostre sofferenze ("Nihil melius aeterna lex
fecit quam quod unum introitum nobis ad vitam dedit, exitus multos"
[5]). Da ricordare è che Seneca, in seguito ad un ordine di Nerone,
poiché considerato complice nella Congiura di Pisone, poco tempo più
tardi (65 a.C.) attuerà tale morte accogliendola con animo calmo e
sereno, ispirandosi al modello della "morte filosofica" di Socrate. |
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